TIANI: 1981/2011 - I 30 anni della Riforma della Polizia di Stato

TIANI: 1981/2011 - I 30 anni della Riforma della Polizia di Stato

Roma, 28 maggio 2011 - Editoriale

che adeguando la propria struttura e funzionamento fosse in grado di contrastare in maniera adeguata, le nuove forme di criminalità che si erano radicalmente trasformate. Per quanto riguarda invece la raggiunta sindacalizzazione, la storia del movimento sindacale antecedente alla L. 121/81 ci insegna che, per tutelare i nostri diritti non bisogna mai abbandonare la strada del movimentismo, il quale per essere tale deve coinvolgere necessariamente la propria base.

Anche quest’anno la Polizia di Stato ha celebrato l’anniversario della sua Fondazione che compie 159 anni. Questa importante ricorrenza per la nostra istituzione che è nata prima dell’Unità d’Italia con il Regio Decreto del 30 settembre 1848 n.728 e ancor prima con le Regie Patenti del 1821 che trasferiva i poteri dal vertice Militare del Corpo al Ministero dell’Interno, il quale rafforza la struttura organizzativa della Polizia, ne definisce i compiti e istituisce i Governatori militari, l’equivalente dell’Autorità di Pubblica Sicurezza. Quest’anno si celebrano anche i trent’anni di quella lungimirante e coraggiosa riforma varata con la legge 121 del 1981 la quale, oltre a modernizzare e smilitarizzare l’apparato, ha riconosciuto i diritti sindacali agli uomini e alle donne poliziotto, rimuovendo così anche le evidenti discriminazioni di genere in seno al corpo. Il clima politico e istituzionale in cui maturò la legge era particolarmente complesso, tutti ricorderanno i fenomeni legati al terrorismo interno e le contrapposizioni sociali e politiche di quegli anni. La riforma della Polizia, infatti, è stata dibattuta per anni, non solo tra i due rami del Parlamento, ma anche in seno agli organismi dei due grandi partiti di massa dell’epoca e delle confederazioni sindacali. L’obiettivo era di superare tutte le difficoltà e le diffidenze che emergevano, anche in virtù delle culture ideologiche dominanti, prima della caduta del muro di Berlino. Era necessario dunque, convogliare e far convergere, la più vasta platea di consensi possibile, valicando i confini della maggioranza politica che governava il Paese, com’è giusto che si faccia quando si discutono le riforme istituzionali, le quali sono un bene e un patrimonio comune di tutti cittadini e non solo di una parte, oggi purtroppo prendiamo atto che non è così, il dibattito sulla riforma della giustizia ne è l’evidenza, ma non solo quella. Il confronto su questo tema e le naturali conseguenti correlazioni sistemiche, era molto teso tra la Democrazia Cristiana da un lato, che si preoccupava di non creare disparità tra le diverse forze di polizia, e l’area culturale e politica di riferimento del Partito Comunista Italiano molto più favorevole e progressista rispetto al miglioramento che si doveva compiere. Il processo di democratizzazione delle forze di polizia richiedeva un nuovo ordinamento della sicurezza pubblica, in poche parole la visione era quella legata al passaggio: “no alla polizia del re, (ove il re simboleggia il potere), si ad una polizia al servizio dei cittadini”. Le ragioni profonde della riforma erano dettate non solo dal disagio del proprio personale, ma dall’evidente esigenza di riorganizzare il Corpo delle guardie di pubblica sicurezza, al fine di adeguare la struttura e il funzionamento per contrastare in maniera adeguata, le nuove forme di criminalità che si erano radicalmente trasformate. È noto a tutti quanto emerso dagli atti processuali in merito al legame di quegli anni, tra la malavita comune e organizzata e la dilagante criminalità politica, una miscela estremamente pericolosa per i cittadini e per lo Stato. Il progetto di riforma doveva rispondere a queste esigenze e con il più largo consenso possibile, anche rispetto alla scelta da compiere sulla natura dello “status civile” degli appartenenti alla pubblica sicurezza, modello che già era in vigore nella maggior parte dei Paesi a democrazia avanzata. La natura giuridica dello status civile, naturalmente, rendeva conseguente il riconoscimento di diritti sindacali e politici al personale, nei limiti dettati dalla peculiare ed esclusiva delicatezza delle funzioni e dei poteri, che ai poliziotti sono attribuite. Andava dunque sanata, anche la questione del riordinamento del personale, per l’anomalia della coesistenza di militari e civili (Commissari e Ufficiali ) nell’ambito della stessa amministrazione. L’Italia dunque, attraverso un riordino delle forze dell’ordine aveva la necessità di adeguare la propria realtà alla stragrande maggioranza dei Paesi occidentali, i cui compiti di polizia erano affidati non a un corpo unico, ma a più forze, con una chiara distinzione delle competenze, non solo per territorio ma anche per materie, le direttive dell’autorità politica ed il collegamento tra i diversi corpi, potevano essere garantite attraverso l’istituzione del coordinamento. Nonostante l’evidente diversità delle posizioni politiche e sindacali, bisogna riconoscere la grande capacità di sintesi e responsabilità, della classe politica dell’epoca, se si considera che non fosse affatto scontato poter incidere su un comparto così complesso e delicato come quello dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, in un momento della storia del nostro Paese molto difficile, oltre le evidenti difficoltà tecniche per il variegato ventaglio delle soluzioni proposte. Ciò nonostante, il Parlamento degli eletti, è il caso di sottolineare, riuscì a licenziare una legge molto equilibrata. Il testo che fu varato riuscì ad evitare la divaricazione tra le due maggiori forze politiche, all’epoca molto sensibili ai problemi generali, senza rinunciare peraltro ai necessari profili della specificità delle forze di polizia, quindi una produzione legislativa omogenea con l’ordinamento giuridico del Paese e dell’Europa. Oggi accade il contrario, gli interessi particolari e di parte prevalgono su quelli generali, e i poliziotti continuano a non sentirsi più tutelati, poiché la specificità e il naturale e legittimo riordino delle carriere sono diventati per certa politica solo argomenti utili per la campagna elettorale. Impostazione lontana anni luce da quella del Legislatore della riforma 121/81 attraverso la quale si rispose in maniera adeguata per l’epoca, alle attese della categoria e dell’istituzione, ma anche alle richieste di modernizzazione, democrazia e maggiore efficienza che una larga parte della società richiedeva. Il S.I.A.P. ha ritenuto celebrare la nostra riforma a Napoli, in alcune sezione dei lavori del proprio congresso nazionale, alla presenza del Capo della Polizia e delle autorità politiche e della magistratura, proprio nei giorni 31 marzo e 1 aprile, attraverso articolati dibattiti e convegni. In estrema sintesi la storia del movimento sindacale antecedente alla L. 121/81 ci insegna che, per tutelare i nostri diritti non bisogna mai abbandonare la strada del movimentismo, il quale per essere tale deve coinvolgere necessariamente la propria base. Coloro che abbandonano questa strada, rinunciano, di fatto, anche se solo implicitamente al mandato di rappresentanza che i poliziotti gli hanno affidato, alcuni lo hanno già fatto purtroppo.